In questi giorni, la mamma di WoW ed Overwatch, Hearthstone e Diablo, che tante videoludiche gioie ci ha procurato (perché regalato forse non è il termine esatto), è sferzata da una tempesta degna del suo nome. E se l’è cercata.

Per chi vivesse sotto un ponte e, pur isolato dalla rete, riuscisse magicamente a leggere questo post, riassumiamo gli eventi: Blitzchung, giocatore e campione di Hearthstone, al termine di un torneo ha espresso solidarietà con le proteste di Hong Kong. La Blizzard ha reagito con ban nei suoi confronti, squalifica dai tornei, annullamento dei premi vinti, licenziamento dei caster dell’evento che non sono intervenuti. E si è trovata stretta tra due fronti di protesta: quello cinese, offeso per la lesa maestà, e quello occidentale, scandalizzato da una compagnia capace di “violare i diritti umani” di un giocatore.
Abbracciando la dicotomia della situazione, Blizzard ha ben pensato di pubblicare (nei diversi contesti) due “scuse” diverse, una che citava l’intenzione di difendere la dignità della grande repubblica Cinese, l’altra che diceva che “la Cina non c’entra, è che non vogliamo politica nei nostri stream”.  Anche durante un BlizzCon fortunatamente più incentrato sui videogiochi che su altro, questa incoerenza non è venuta meno; incoerenza che già avrebbe fatto danni, ma il botto è stato forte per un altro motivo.

Il motivo è che da tempo la Blizzard ostenta un atteggiamento da social justice warrior, da campione dei diritti umani, che di sicuro a noi piace. La placca “Every voice matters” sotto la statua dell’orco, le campagne contro i videogiocatori definiti “toxic”, l’esibizione nei suoi titoli di grande attenzione ai temi dell’inclusività dei personaggi dal punto di vista razziale ed LGBT. Corretto, giusto, condividiamo.
Ma se utilizzi questa immagine non solo politically correct, ma da veri e propri paladini di libertà e uguaglianza, solo per raccattare parti del mercato occidentale, poi il contrasto con i compromessi legati al mercato cinese è brutale.

Il Presidente Blizzard, J. Allen Brack, e la sua spilla Blizzard arcobaleno.

Brian Kibler, ex Pro di Magic, streamer e caster di Hearthstone, ha pubblicato uno statement che trovo molto coerente sulla questione. Fa presente che quello di tener fuori questioni politiche e sociali dai suoi stream è assolutamente un diritto della Blizzard, ma che la punizione è molto (troppo) severa per i suoi standard e per gli atteggiamenti precedenti.

Ipocrisie di mercato a parte, credo sia necessario intanto scendere dal nostro piedistallo: ma finora, i giochi, che mercato volevano far contento? Chi era il giocatore medio? In che contesto sociale si inseriva? Risposta: noi, noi, il nostro. Al massimo ci arrivava qualche roba assurda dal giappone, che col tempo è stata sempre più sdoganata ed inserita nella stessa cultura “globale”, che forse tanto globale non era.
Ora le maggiori opportunità di espansione per le grandi software house sono verso la Cina, e lì il mondo non è proprio lo stesso. Solo che se si trattava di censurare i panda ridevamo, ed ora siamo arrivati agli esseri umani.

La realtà è che il discorso è talmente vasto, comprendendo anche considerazioni su quanto sia possibile esportare (aka imporre, spesso) la propria cultura altrove, da richiedere un grosso passo indietro.

Blizzard, EA, Epic e compagnia cantante stanno acciaccando una merda dopo l’altra: facciamo attenzione, il principio delle loot boxes, o pacchetti di FIFA Ultimate Team che siano, ha un impatto negativo sulla cultura della ludopatia molto più immediato e deleterio di quanto possa esserlo il censurare un giocatore di HS.

Togliamo il romanzo e il sentimento dalla narrazione, e rendiamoci conto che non possiamo cercare in una multinazionale il grande faro di speranza per una vita migliore, per noi o per altri. Poi, volete boicottare questo o quel prodotto? Fatelo. Assicuratevi di non comprare il concorrente solo perché in quel momento vi sta sussurando la cosa… “giusta”.